BUSSOLA
“Non mi piace qui. Non so che cosa sta succedendo. Procediamo improvvisando continuamente in questo informe mondo, le cui regole e obiettivi sono sconosciuti, apparentemente indecifrabili, per non dire che forse nemmeno esistono. Sempre sul punto di essere uccisi da forze di cui ignoriamo il senso.”
( dal film Existenz di David Cronenberg)
La differenza tra l’errare e l’errore sta nella direzione. Si va errando quando si cammina senza direzione. Si fanno errori soltanto se si segue una rotta, se si devia dalla propria traiettoria.
Come percorrere il labirinto
“Una volta davanti alla porta, bisogna avere il coraggio di entrare. Un grande coraggio: i labirinti fanno paura agli uomini del giorno d’oggi, abituati ai grandi viali rettilinei. Non amano avanzare quando davanti a loro scorgono anche solo un gomito o un buco nero. Sanno che, una volta dentro, saranno irrimediabilmente smarriti”1scrive Attali.
Continua Attali, “ alcuni cercheranno di aggirare. Ma la vita è fatta in modo tale che non ci si può rifiutare di percorrerla… Altri tenteranno di attraversare la vita in linea retta, aprendosi un cammino con la forza, come consigliava Cartesio. Per la maggior parte, falliranno: la linea retta è impedita a chi voglia vivere nella realtà… Altri ancora prima accettano di entrare nel labirinto, poi s’impauriscono e tornano indietro… Infine alcuni, una volta entrati nel dedalo, si rassegnano a vivere indefinitamente all’interno di uno dei meandri, senza più cercare di uscire, accettando la prigione perpetua piuttosto che i rischi del fuori… Al contrario, l’unico atteggiamento concepibile è: entrare, far fronte, affrontare il mondo nomade così come è, dimenticare le armi del sedentario, considerare il labirinto non come un problema, ma come la soluzione. E quindi avanzare e volere perdersi in esso.2
Particolarmente interessante è notare il significato che ha il termine labirinto in lingua tedesca, come spiega Santarcangeli . “Ci sono ben due parole per indicarlo, oltre al dotto Labyrinth, e sono: Irrwege e Irrgarten. Discendono ambedue dal verbo irren e dal sostantivo Irre. Il verbo è il nostro «errare», ma nell’accezione, anche e soprattutto, di «sbagliare», «ingannarsi», con il composto irre machen, «confondere, sconcertare». Irre è poi uguale a «pazzo», all’uomo il cui spirito è caduto nella confusione, che si è perduto per sempre; ma è anche colui che «erra» nel doppio senso che la parola ha anche per noi: die Irrfahrten des Odysseus sono l’errare, gli errori, le avventure di Ulisse.” 3Credo che l’errare, nel senso di camminare, e l’errore, nell’accezione di sbaglio siano strettamente legati nella dinamica esistenziale dell’essere umano. Dove c’è un uomo che cammina, che erra, c’è anche un uomo che inciampa, che cade in errore. Per parlare di sbaglio è però necessario definire rispetto a cosa esso si possa considerare tale; esiste l’errore se è stato mancato un obiettivo precedentemente stabilito. Per errare, invece, si consideri il procedere della vita di un uomo nel mondo alla ricerca della libertà, ossia la sua esistenza nell’aspirazione alla liberazione. Si accetti questa accezione dell’errare poiché qui non ci interessa l’esistenza come Sopravvivenza ma l’esistenza come Vita, e in quanto tale essa richiede iniziazioni, morti e rinascite, prove, labirinti. In questo contesto, si possono individuare due tipi di errori possibili.
L’errore compiuto cercando di seguire la direzione della liberazione e della consapevolezza, non è un vero e proprio errore. È la necessità di accorgersi, comprendere e superare un limite per riuscire a raggiungere la vetta. L’errore è tale quando si rinuncia consapevolmente alla propria libertà e quindi si rifiuta di camminare per la propria liberazione scegliendo la strada più corta, il sentiero in discesa o il nido che è diventato gabbia.
Ognuno ha una propria via, che in fondo è il proprio io. “Gesù gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.” (Giovanni 14,6).
Si vuole affermare che quando si è davvero se stessi, si verifica una completa identità tra l’io, l’azione e Dio. Si può decidere di deviare da questo programma di libertà e amore: questo renderebbe impossibile trovare la via d’uscita.
La libertà è non essere impedito da condizionamenti esterni. L’uomo non sa ciò che vuole e non vuole sempre le stesse cose. Limitarsi alla volontà del proprio io non è sufficiente, la libertà non si compie nella totale indipendenza ma solo dove ci sono relazioni libere. Per tutti questi motivi, l’uomo per sperimentare la libertà, deve imparare ad indirizzare la sua volontà.
Nel film Existenz di Cronenberg è data, in relazione al rapporto libertà/destino, una chiara visione dell’esistenza umana esplicitata attraverso le dinamiche del videogioco. La scelta che può operare chi sta giocando è arbitraria nella misura in cui non contraddice il “copione” del gioco, pensato dal suo creatore. Si tratta insomma di una libertà partecipata. Così nel video game, come nella realtà vissuta non consapevolmente, ci troviamo a fare scelte e recitare ruoli di cui ignoriamo l’origine e lo scopo.
Molte soluzioni sono state proposte come modus operandi per colui che è nel labirinto e vuole trovare l’uscita. Ne cito solo alcune.
Riprendo ora il concetto della via, che è vita e verità per ognuno. È questo uno dei fondamenti della filosofia della Qabbalah: le Vie, e quindi le Verità, sono tante e diverse ma sono verità parziali. Per arrivare a cogliere la Verità è necessario superare il contrasto tra esse riuscendo a pensare senza dar torto a nessuna di esse. Guardando questo labirinto da più in alto, posso scorgerle e accoglierle tutte. Nel labirinto, però, l’io non è uno. Ci sono due parti che lo compongono: una che conosce la via e l’altra che cammina. Una ha lo scopo, l’altra innesca la causa nel mondo. Una intuisce e trova, l’altra comprende e cerca. Seguire la Via significa camminare nell’allineamento tra io celeste e io terreno: solo in questo modo si scopre, ci si accorge, si intuisce e si può eliminare dalla propria vita tutto ciò che devia dalla rotta.
La tradizione ebraica usa lo schema noto come ‘Albero delle Vite’ per raffigurare il percorso che ogni io, ogni opera e ogni avvenimento attraversa dall’Infinito. Percorso che è al di là di ogni conoscenza, e giunge fino al finito, cioè fino al momento dell’incarnazione in una realtà terrena. Esso è anche il sentiero di risalita, attraverso cui l’intero creato può ritornare all’unità del ‘grembo del Creatore’, secondo una famosa espressione cabalistica. L’Albero delle Vite è la ‘scala di Giacobbe’, la cui base è appoggiata sulla terra, e la cui cima tocca il cielo. Esso è composto da dieci sfere e da canali che le connettono le une con le altre. In ciascuna sfera (chiamata Sephirah) del mondo invisibile, l’anima o l’evento che sarebbe giunto nel mondo terreno viene plasmato acquisendo determinate qualità fino a giungere alla decima Sephirah, quella del mondo visibile, che in qualche modo contiene tutte le altre. In realtà ne contiene l’ombra: l’ Albero infatti ha una struttura a spirale lungo cui si dispongono le Sephirah. La sua ombra, proiettata verticalmente, disegna un cerchio.
Secondo Rosenstiehl ci sono due modi: quello razionale dell’Arianna saggia e quello più anarchico dell’Arianna folle. La prima si muove considerando sempre attentamente ciò che vive ed ha vissuto, è estremamente razionale di fronte alle sue scelte, anche se è costretta ad esplorare sia corridoi ciechi che corridoi utili. La seconda invece, è solitamente imprevedibile, può tornare indietro senza preavviso, senza aver prima esplorato tutte le vie possibili. Questo momento rimette sostanzialmente in gioco tutte le possibilità dell’universo, tutti i corridoi, dove la soluzione è nel rovesciamento di ruoli di quello che si crede l’unico mondo possibile. Si gioca in ogni caso con gli eventi, il rapporto è con il tempo, con la storia: in Arianna saggia prevale un prudente passato, in Arianna folle prevale un imprevedibile presente.
Il criterio più adatto, secondo La Cecla, è quello della mente locale, ossia un processo dal perdersi all’orientarsi che sviluppa una percezione di se stessi in relazione al proprio ambiente. Nelle culture premoderne la comprensione del luogo di vita, non è oggettiva ma personale. In questo conteso l’orientamento non è tanto la capacità di leggere una mappa, seguire un sistema di coordinate per raggiungere una meta, come s’intende al giorno d’oggi; quanto la capacità di creare una struttura generale di riferimento al cui interno agire e relazionare la propria conoscenza all’ordine del cosmo. Staccato dal Cosmo intorno, un insediamento è impossibile.
È ben chiaro come l’orientamento ha a che fare con la propria identità. Significa creare un ordine a partire da un caos, suscitare il sacro a partire dal profano. Orientarsi in un luogo non è una questione geografica ma ontologica, è un processo in cui si costituisce la propria identità, possibile solo se si riesce a mettersi in relazione con l’altro. Questo ascolto della sapienza locale, non è mai realizzato una volta per tutte, ma si rinnova ciclicamente, come accade a colui che all’uscita del labirinto trova un altro labirinto.
Si può affermare che la vera sapienza infatti non può prescindere dalla conoscenza di sé stessi e dei propri limiti. Attraverso questi ultimi noi cerchiamo di afferrare ciò che è oltre di essi ma, è ovvio, il tentativo è vano. Noi possiamo ipotizzare non tanto circa le cose del mondo, bensì riguardo a cosa il nostro tipo di mente possa capire delle cose del mondo. In fondo lo afferma anche la teoria logico-matematica dell’incompletezza di Kurt Godel del 1931. Un sistema, per Godel, non può essere usato per dimostrare la sua coerenza: occorre un punto di vista esterno a esso e più ampio per capire come quel sistema funzioni. A pensarci bene dappertutto si trovano sistemi: il modo in cui si ragiona, come ci si comporta, la lingua che si parla, la civiltà, le religioni.
Per questo motivo vedere il proprio sistema di pensiero è il presupposto per aprirsi alla conoscenza e forse anche alla vita. Eraclito diceva : “A tutti spetta conoscere sé stessi”. Osserviamo noi stessi, comprendiamo noi stessi, andiamo infine oltre noi stessi per percepire il recinto entro il quale ci limitiamo a muoverci nel pensiero, nel desiderio e nell’azione.
Per scorgere cosa c’è oltre e poi andare al di là del recinto, non è sufficiente la curiosità. Sono necessari un grande desiderio di libertà interiore, una forte volontà nell’affrontare la battaglia e soprattutto, la fede. Attali conclude il suo libro soffermandosi proprio su questo aspetto: per percorrere il labirinto fino in fondo c’è bisogno di una forza e di una fiducia che l’uomo trova in sé stesso soltanto se con lui c’è Dio, l’ uomo nomade di domani avrà bisogno di portare nuovamente Dio con sé. Continua “In questo senso il terzo millennio sarà mistico, perché nomade. Nella solitudine ciascun essere diventerà come il filo di un tessuto, la parola di un testo, la cellula di un organismo vivente, un punto di un labirinto che lo ingloba e lo trascende. Ciascuno sarà una particella del Dio che porterà con sé.” 4