ARTE
“Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta.
Perché dalle loro parole non diramarono fulmini.
Non andartene docile in quella buona notte,
Infuriati, infuriati , contro il morire della luce. ”
( da Do not go gentle into that good night di Dylan Thomas)
Interpretazioni del labirinto
Data la natura archetipica del simbolo, nel corso dei secoli si rintraccia una numerosissima produzione inerente il labirinto ma la mia attenzione si concentra su poche opere contemporanee per rivelare il differente sguardo che le ha prodotte e l’invito che esse portano con sé.
In realtà l’arte contemporanea vive tutta sotto il segno del labirinto: essa, più che dare risposte, propone domande.
L’arte pratica il labirinto: il luogo percepito come il regno dell’erranza assoluta, il luogo del nomadismo che l’artista abbraccia come modalità. L’arte destruttura la mentalità tradizionale, mostra modi diversi di vedere, sposta il punto di vista, diventa lo strumento che consente di aprire il reale a relazioni inedite ed imprevedibili, fonda un territorio magico. “L’arte, se vuole innalzarsi oltre le questioni puramente formali,non può accontentarsi del mero segno plastico o della semplice interpretazione estetica dei motivi naturali. Essa deve creare dei segni concreti che, sotto l’aspetto della metafora visiva, si riferiscano anche a connessioni che li trascendono e possono innalzarsi a valore di simbolo“1dice Santarcangeli.
Claudio Parmiggiani
Per l’artista il labirinto è un topos frequente che rende sensibile l’immaterialità dello spazio; inizia nel 1970 con il primo ‘Labirinto Di Vetri Rotti (senza titolo)’, opera che ripeterà in molte gallerie e ambienti diversi. La performance lo vede impegnato come un guerriero con tanto di armatura e mazza. Arrivato al centro di un labirinto di lastre di vetro, inizia a frantumarle, in modo da aprirsi una strada per la fuga dalla prigione trasparente. Parmiggiani sembra affermare che l’esperienza dell’uomo nel mondo non può che passare attraverso il frammento per sottolineare il senso di perduta totalità. Il suo labirinto è traccia, rovina.
Il labirinto è una metafora dell’individuo nel mondo, mette in scena questa catastrofe, invita lo spettatore a inoltrarsi tra i vetri cercando di raggiungere un centro fisicamente inaccessibile.
Come ha osservato Corà, “il labirinto di vetri rotti resta pur sempre una forma contraddittoria, giacché oltre a non nascondere, rende tutto visibile e quel che è più sconcertante, rende la sua fisicità attraversabile dallo sguardo. Quel labirinto quindi si può osservare in ogni sua parte ma non è accessibile. 2Parmiggiani lavora sempre al di là della fisicità della materia, ne rileva il vuoto, ne evidenzia l’assenza. Egli stesso ce lo rivela: “Occorre portare l’arte lontano dalla teatralità, ricondurla alla sua solitudine, al suo silenzio, alla sua necessaria luce. Riportarla nella sua notte, nel buio di noi stessi. Occorre arare, arare dentro l’anima, per renderla fertile. Un’opera non può che nascere in rapporto con il suo mondo spirituale e non con quel sistema dell’arte globale che contrabbandano per il mondo mentre non è che una globale menzogna. Da quel mondo sogniamo una libertà, sogniamo di essere soli”.3
Altra dinamica costitutiva del lavoro di Parmiggiani è la temporalità. L’opera si costituisce come traccia di un passaggio avvenuto e il fluire temporale è ciò che permette di scoprire l’essere come evento. Il rapporto con lo spazio è un aspetto centrale nelle realizzazioni in situ dell’artista. “Un’opera può far vivere un luogo, se è in grado di farlo parlare. Solo a condizione di riuscire a radicarvisi come in un luogo assoluto. Questo problema del dialogo con il luogo, e del luogo con l’opera, è una cosa molto delicata. Passi accanto a cento persone e ti sono tutte indifferenti, poi ce n’è una dentro la quale ci sei tu. La stessa cosa sono i luoghi. C’è un’energia, allora quel luogo pulsa e se vuoi lavorare lì devi lavorare con quell’energia, non contro. In molti luoghi quell’energia non c’è. Se fai un buco in un muro di una qualsiasi cattedrale, esce sangue, se fai un buco in un muro di un qualsiasi museo non esce niente.”4
Alla luce di ciò si osservi come l’artista reinterpreta lo stesso labirinto allestendolo in luoghi diversi. Nel 2003 in occasione della mostra nella Galleria d’Arte Moderna a Bologna, il labirinto posto nella sala centrale assorbe lo spazio della galleria. Nel 2006 per il festival di Architettura al Teatro Farnese di Parma, allestisce il labirinto nell’area della scena rivelando l’originaria funzione bellica del luogo, un’armeria, e la nomina Teatro dell’Arte e della guerra. Nel 2008 ripropone il labirinto nel Collège des Bernardins a Parigi, accordando la valenza spirituale della sua opera al profondo senso di silenzio e solennità del collegio.
Si tratta di adagiare un luogo su un altro per costruire la rizomaticità.
Jannis Kounellis
Il suo labirinto è un contenitore di qualcos’altro,” qualcosa che viene da molto lontano”, racconta Kounellis, “come se tornasse dal passato”. È uno spazio di gestazione in grado di produrre una metamorfosi, infatti Kounellis ne recupera le proprietà iniziatiche: il percorso è occasione di epifanie. Putrelle, sacchi, pietre, oggetti tratti dal quotidiano diventano rivelazione della loro essenza entrando in risonanza o contrasto concettuale e materiale.
Nel 2002 Kounellis espone, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, un imponente costruzione di ferro e carbone. L’installazione invade tutta la Sala delle Colonne proponendo un percorso strutturato come un labirinto ad albero: quattro corridoi ciechi accolgono ognuno un’opera: il letto, i sacchi di juta, la lampada sulla mensola e le bilance con il caffè. Sono riferimenti simbolici, evocazioni ancestrali dal forte sapore antropologico, sono tutti temi ricorrenti nella produzione dell’artista. L’elemento naturale è presentato direttamente oppure è evocato; ad esempio il fuoco richiamato dalla lampada. Gli oggetti allestiti sono disposti a livello dello sguardo, la struttura è costituita da lamiere che hanno un’altezza proporzionata all’uomo. La sua idea di labirinto è contraria all’idea di architettura. Irrompono le sensazioni, il forte odore del caffè, gli stimoli tattili indotti. Kounellis crea lo spazio del viaggio esistenziale, della trasformazione. “Non esiste la scelta di frammento senza volontà; niente è casuale; nell’espugnare il labirinto appena fai un gesto casuale sei perduto. Bisogna arrivare al centro. Nessuna scorciatoia risolve il problema, il viaggio all’interno del labirinto deve essere reale fino al cuore del problema e questo ti dà anche la misura del tuo destino.”5
Nel 2008 Kounellis ripropone l’installazione in occasione della retrospettiva tenutasi nella Neue Nationalgalerie di Berlino. La sua opera si apre al trasparente spazio razionalista della galleria, articolandosi in tre sezioni secondo una composizione molto semplice. Il segno che ne risulta enfatizzato è quello del muro, peculiare questione berlinese. Analizzando entrambi i lavori, è chiaro che a Kounellis del labirinto interessa la nuova acquisizione di senso che ne scaturisce, propria del viaggio iniziatico. Organizza lo spazio per creare un percorso, orientare e guidare lo spettatore nella scoperta della vera identità delle cose. Non pone mai l’enfasi sullo smarrimento.
Robert Morris
Centrale nelle sue opere è l’essenza e il ruolo del corpo. Egli propone dei dispositivi architettonici attraverso i quali realizza la vera esperienza fenomenologica del labirinto: il perdersi. Lo spettatore è chiamato a percorrere gli spazi estranianti da lui creati, per sperimentare lo spaesamento e la conseguente rigenerazione del proprio stato ed equilibrio interiore nel momento di incontro con l’opera. Il labirinto assume in generale una valenza di riflessione sui sistemi di oppressione del corpo attraverso la definizione di spazi specifici. La ’pressione spaziale’ esercitata sui corpi degli spettatori richiama la coeva pratica degli happenings organizzati a partire dal 1959 a New York, con l’intento di manipolare l’audience, istigando all’aggressività. Il primo labirinto realizzato è Untitled (Labyrinth) del 1974 costruito con compensato e masonite e dipinto di grigio, ispirato al modello del pavimento della cattedrale di Chartres. Nel 1982, all’interno del parco di Celle, Morris sceglie un piccolo prato in declivio per l’ opera.
Essa è costituita da spessi muri disposti secondo una planimetria triangolare, forma decifrabile solo da una visione dall’alto. Morris lo commenta: “Giri senza fine cercando un centro che continua a sfuggire. L’inseguimento con o senza filo, minaccia un collasso, uno scivolamento, un perdersi ad ogni giro d’angolo. Ogni passaggio: una strategia, un calcolo, una misura, un abbandono, un recupero, una ri-iniziazione. Un possibile orientamento ruota sopra una precessione elusiva.
La vertigine minaccia”6 I muri sono a fasce bianche e verdi, rispettivamente marmo di Trani e marmo serpentino, ed evocano chiaramente l’architettura delle chiese romaniche toscane. Influiscono in modo determinante nella percezione dello spazio fruito dal visitatore: chi si addentra nel percorso, stretto e obbligato, si sente chiuso in uno spazio deformato e sfuggente, non comprensibile, a causa della planimetria e della distorsione ottica provocata dalle righe .
Più rassicurante è l’esperienza proposta nel Glass Labyrint, scultura nel parco del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City. Le pareti sono di vetro, quindi perfettamente trasparenti ed il percorso in cui si articola la struttura è di tipo unicursale: si entra e si esce dallo stesso punto seguendo un percorso obbligato. La pianta ha sempre la forma di un triangolo equilatero al cui interno si snoda il tracciato da percorrere, costruito fisicamente dai setti, ora di vetro. Benché la trasparenza renda possibile in una certa misura l’orientamento, il tracciato obbliga a smarrirsi all’interno per uscirne. L’obiettivo che Morris si pone, è proprio la messa in scacco dei limiti del pensiero oggettivo denunciato da Merleau Ponty. Secondo questi un artefatto non è mai risolvibile in un’univoca prospettiva di ricezione, ma è sempre rappresentabile e percepibile da diversi punti di vista in funzione della sempre mutevole posizione spaziale e temporale del nostro corpo, acquistando significati e forme sempre diverse.
Michelangelo Pistoletto
L’installazione ‘Labirinto’ è stata presentata per la prima volta nel 1969 presso il Museum Boymans Van Beuningen di Rotterdam. È una costruzione di cartone ondulato, lunga 120 metri al cui centro erano posizionati lo stesso artista insieme a Lionello Gennero e Maria Pioppi e insieme suonavano dei megafoni. L’idea del Labirinto, come dirà l’artista, risulta motivata dal fatto che la gente può circolare in esso liberamente, ma ad una condizione. Essendo uno spazio chiuso, l’osservatore, invece di passare da una stanza all’altra del museo, ha la sola possibilità di muoversi tra le pieghe della carta, di misurarne lo spazio e interagire con esso, emettendo dei suoni attraverso grandi megafoni e lamiere. L’osservatore è sia attore che spettatore di una performance sull’esperienza dello spazio. Lo spazio, per lui, è il luogo dell’azione. Lo spazio definito dal labirinto di Pistoletto non è inglobante, è aperto. L’altezza del cartone non arriva al livello dello sguardo, rimane più bassa e ciò consente all’occhio di averne il dominio e non esserne dominato. Di conseguenza si permette all’osservatore di avere una visione globale che rende il labirinto del tutto innocuo.
L’installazione è stata ripetuta nel 2010 con il nome di ‘Labirinto e Grande Pozzo’ presso l’Art Basel in Svizzera e poi nel 2011 presso la Serpentine Gallery a Londra con il titolo di ‘Mirror of Judgement’. Il percorso, in questo caso, guida lo spettatore all’interno della galleria e permette di osservare varie sculture. Al centro si ha la rivelazione del Terzo Paradiso insieme alle rappresentazioni delle religioni principali: Cristianesimo, Islam, Ebraismo e Buddismo.