Spazio costruito 2018-01-29T19:37:27+00:00

SPAZIO COSTRUITO

“ Non era affatto proibito lasciare la città-labirinto. Al contrario, chi vi riusciva veniva considerato un eroe, un uomo di grande talento, e della sua leggenda si continuava a parlare a lungo. Ma ciò era consentito solo alle persone felici. Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne.”

(dal libro Lo specchio nello specchio di Michael Ende)


Luoghi Altri, 2016, stampa su lucidi, 30x40cm

Un disegno aperto, estensibile all’infinito, fatto di una planimetria urbana il cui sviluppo si può incrementare a dismisura sia planarmente sia sovrapponendo altri lucidi. Non si può far altro che smarrirsi in ciò che non ha limiti.


La città-labirinto

Esiste una lunga tradizione che spiega il nesso esistente e universalmente riconosciuto tra la città e il labirinto, basti pensare alla nota identificazione tra la città di Cnosso e l’immagine del labirinto stesso. Questa integrazione viene ulteriormente documentata dalla numismatica, che restituisce, attraverso la tipologia di labirinto rappresentato, il modo di organizzare la città in quel tempo specifico.
La città-labirinto si configura essenzialmente come luogo urbano non rispondente ad uno schema semplice di orientamento e si identifica come uno strumento sia abitativo che difensivo. Questa idea sottende comunque l’esistenza di un centro o di una meta, rispetto a cui esiste un’ organizzazione gerarchica e una serie di relazioni tra punti. Gli stessi itinerari percorribili si intersecano creando crocevia che sono centri d’interesse per l’individuo e per la collettività. Anche in riferimento alla città, il labirinto è un movimento in uno spazio in cui si distingue un dentro da un fuori e la relazione con il fuori è circostanziata alla volontà di entrarvi e alla capacità di uscirne.
Alla luce di quanto affermato, l’architettura moderna appare profondamente anti-labirintica. Dice Santarcangeli “L’architettura pubblica del Novecento è, nella sua totalità, sociale, laica, democratica, demistificatrice e demitizzante; se vogliamo definirla per concetti contrapposti, non è affatto sacrale (non riesce a esserlo nemmeno nelle chiese) e tende alla chiarezza e a una messa in evidenza della parità di condizione e importanza umana delle persone che dovranno fare uso degli edifici: propone la massima apertura e limpidezza.”1 Ora che la cerchia muraria smette di dare forma alla città, cadono le pareti che definiscono il vecchio labirinto e si apre davanti l’infinito deserto della metropoli contemporanea. Nelle nuove città, l’urbanistica è progettata a tavolino secondo criteri razionali di edificazione e in base a principi economici, lasciandosi alle spalle l’accoglienza delle antiche città prodotte dalla storia e dall’esperienza umana. Il sentimento di chi vive la metropoli è spesso di sradicamento, di solitudine e di smarrimento.
Per definire quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici, Augé conia il neologismo ‘nonluoghi’ come contrapposizione ai luoghi antropologici. Fanno parte dei nonluoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali; tutti spazi in cui le individualità s’incrociano senza entrare in relazione. I luoghi storici vengono ridotti a semplici ‘oggetti d’interesse’ inseriti in un magma indistinto, serializzato e massificato. Le differenze sono neutralizzate e non creano contaminazioni: nel centro commerciale nulla è lasciato al caso e tutto al suo interno è calcolato con precisione, troviamo cibo di qualsiasi nazionalità ma ognuno nello spazio circoscritto assegnato.
Nessuno abita i non luoghi, le persone vi transitano. L’individuo è un’utente, perde tutte le sue caratteristiche e i ruoli personali per essere solo ed esclusivamente cliente o fruitore del servizio offerto. Sono queste le nuove regole, non esplicitate, accettate tacitamente come dinamiche prestazionali che entrano in vigore con l’ingresso nel nonluogo.
In realtà la dimensione labirintica appartiene anche alla città metropolitana, nel suo aspetto rizomatico di rete infinita. Siamo lontani dalle società primitive in cui la città è organizzata attorno ad un centro, creando una corrispondenza tra ordine umano e ordine cosmico: “l’insediamento è una cosmografia, una cosmologia, ma non come può esserlo un modello statico. Il sistema villaggio, pur essendo il riassunto del cosmo, è esso stesso il cosmo, cioè un sistema compiuto che si autoregola e auto-produce. Infatti è anzitutto un centro del mondo. Solo da un centro si possono lanciare le direzioni dell’orientamento“2 In queste culture la comprensione dello spazio e del luogo di vita è personale e interrelazionale. La percezione di se stessi scaturisce dal rapporto con il proprio ambiente, generando un forte senso di appartenenza e una profonda conoscenza di ogni suo aspetto. In questo senso si può affermare che l’abitare diventa una forma di conoscenza locale, una ‘mente locale‘, per riprendere La Cecla.
Quando non vi è separazione fra l’uomo ed suo spazio vitale, l’abitare non potrà essere solamente una conseguenza della progettazione. Piuttosto si costruirà a partire dall’interno, da un luogo, da un polo che orienta l‘intera vita e da questo scaturiranno le varie direzioni. La capacità di organizzare il proprio ambiente circostante, di creare una struttura generale di riferimento al cui interno agire. È ciò che La Cecla intende con il termine orientamento. Si tratta certamente di un’idea dell’orientarsi più solida e al tempo stesso più sottile, non abbiamo più a che fare solo con la mera capacità di leggere una mappa e seguire un sistema di coordinate per raggiungere una meta.
Il perdersi proprio delle culture dell’abitare consisteva nello smarrirsi nel mondo selvaggio, oltre i confini del villaggio, assumendo così una funzione fondamentale nel conoscere il proprio luogo e anche una valenza rituale. Il cittadino moderno (invece) si perde nello stesso ambiente in cui vive, si scopre spaesato nel luogo che dovrebbe percepire come familiare e domestico.
La città oggi è diventata indifferente per il cittadino che non ha il potere di mettere le mani sulla città e di mutare il volto dell’ambiente in cui vive. Continua La Cecla: “ È contro questo terribile dominio della località che agiscono i primi regolamenti di polizia urbana e i primi piani urbanistici. Si tratta di fare ‘piazza pulita’, demolendo, sfrattando, penetrano corte e cortili, mettendo a nudo ciò che in questi domini esclusivi della località poteva celarsi di pericoloso per l’igiene, il decoro e la morale pubblica. […] La città deve smettere di essere un insieme di foreste dove gli estranei si perdono”3 La città contemporanea è effettivamente una foresta illimitata in cui ci si smarrisce proprio perché manca il limite: necessario all’orientamento dell’uomo. L ‘uomo ha relativizzato le differenze rendendo equivalenti le tante alternative che la vita gli presenta. Personalmente dubito, che l’emancipazione dal problema della scelta, lo abbia davvero liberato. Credo piuttosto che l’assenza del limite lo abbia condotto ad un sentimento di vuoto e frustrazione , dal quale può venir fuori solo con un atto molto coraggioso che col tempo diverrà necessario: la creazione di limiti per riappropriarsi di un destino. Il senso del limite ci fa esistere e capire.