Labirinto 2018-01-29T19:37:26+00:00

LABIRINTO

“ Il parco di quell’albergo era una specie di giardino alla francese: senza alberi, senza fiori, senza vegetazione alcuna.
La ghiaia, la pietra, il marmo, la linea retta disegnavano spazi rigidi, superfici senza mistero; sembrava a prima vista impossibile perdersi.
A prima vista lungo quei viali rettilinei, fra statue dai gesti immobili e lastre di granito dove voi ora stavate già perdendovi, nella notte tranquilla, sola con me…”

( dal film L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais)


La nassa è un strumento di pesca a forma di campana, nella cui parte basale vi è un imbuto con un piccolo foro, che permette al pesce, attirato dall’esca, di entrare e rimanere intrappolato. Come quando, percorrendo una città, mi scopro in un vicolo cieco: sono in trappola.


Morfologia e ontologia del labirinto

“Il labirinto rappresenta l’essenza dei sistemi reticolari acentrati (cfr. centrato/acentrato, rete, sistema) nei quali ogni decisione viene presa localmente. Il problema allora è quello di capire in che misura un «viaggiatore» (interno al labirinto), dotato solo di percezione locale, sia capace di un’azione globale che gli eviti infiniti percorsi (cfr. locale/globale, calcolo, algoritmo, automa). Dal punto di vista esterno dell’«architetto» del labirinto è possibile una classificazione secondo i metodi della topologia combinatoria (cfr. geometria e topologia). In generale dal punto di vista formale «risolvere» il labirinto significa esplorarlo tutto e ritrovarsi al punto di partenza. A ciò si adattano i metodi combinatori della teoria dei grafi e delle reti (cfr. combinatoria, grafo, ma anche grammatica, per il fatto che ad ogni labirinto è possibile associare una grammatica generativa del tipo context-free). Ma, risolto il labirinto, rimane la metafora (cfr. metafora/metonimia) per cui ogni persona tende a misurare il proprio progresso con l’avanzamento in qualche labirinto; rimangono così le contraddizioni e le simbolizzazioni della mitologia, rimane intatta la potenza magica del labirinto.
(cfr. immagine, magia, mito/rito, simbolo)”1 Il progetto stesso dell’Enciclopedia Einaudi è stato pensato come rete di modelli e dunque come un possibile labirinto. Ha 556 voci racchiuse in un grafo disposte in modo da rendere impossibile determinare un centro da cui iniziare o verso il quale concludere la ricerca. Ci si muove nell’enciclopedia come nel labirinto, seguendo percorsi che il lettore stabilisce; scegliendo di volta in volta le singole voci da approfondire. All’interno di ogni voce sono evidenziate parole o coppie di parole, che portano ad altre voci.
Il Web è il simbolo di un labirinto infinito, in cui ogni sito può moltiplicare a dismisura sia le connessioni con altri siti sia le voci del menu. Questa crescita illimitata è prerogativa degli spazi virtuali come Internet in quanto la navigazione viene effettuata percettivamente/mentalmente e non corporalmente. Lo spazio Web, per sua natura, non ha confini ma porta con sé una totale arbitrarietà a riguardo delle scelte..
Affrontiamo di continuo labirinti senza rendercene conto. E li costruiamo perché li pensiamo. In qualche modo sono parte della natura umana. Una struttura simile a quella del dedalo, infatti compare nella struttura stessa dell’uomo: nell’orecchio, nell’intestino, nei vasi sanguigni. Sembra essere una rappresentazione di un fenomeno naturale, un simbolo che esplicita una predisposizione strutturale. La natura, nella sua infinita creatività, è ricca di labirinti e li ha riprodotti in molteplici modi: le caverne, i corsi d’acqua, oltre ai labirinti spiraliformi, il DNA e le galassie del vasto universo. Il creato vuole ribadire quello che ciascuno di noi sperimenta intuitivamente: il labirinto fa parte della vita e la vita stessa è un labirinto.
Tre sono le tipologie fondamentali di dedali pensati e realizzati dall’uomo, i quali possono essere associati a elementi naturali e nello stesso tempo costituiscono diverse sfumature nel modo di concepire il cosmo da parte dell’uomo. Nella prefazione a ‘Il libro dei labirinti’ di Santarcangeli, Umberto Eco descrive brevemente questi tre tipi.
Il primo tipo di labirinto è quello cretese, definito ‘unicursale’ o ‘pseudo labirinto’ perché si entra da una parte e si esce dall’altra, quindi è percorribile in un’unica direzione; la difficoltà non sta nel percorrerlo ma nel riuscire ad uscirne vivi perché al centro c’è la prova, il Minotauro. Questo schema, sebbene appaia intricato per la sinuosità del percorso, corrisponde ad una visione abbastanza ordinata del cosmo benché difficile da comprendere e vivere.
Il secondo tipo è detto ‘manieristico’, composto da una struttura ramificata che si manifesta in una successione di bivi. Ad ogni bivio, solo una è la strada verso l’uscita quindi muoversi all’interno non è affatto banale perché si può finire in vicoli ciechi e dover tornare indietro ogni volta. La scelta della via da percorrere, riflette l’idea di un mondo caratterizzato da diversi gradi di complessità ma in cui è ancora possibile rintracciare una gerarchia, come nelle strutture arborescenti.
Il terzo è il ‘rizoma’ o rete infinta in cui non c’è limite alle connessioni tra gli elementi e scompare la distinzione tra un interno e un esterno. Lo caratterizza la presenza di passaggi trasversali da un ramo all’altro: in questo schema di labirinto è facile perdersi e rischiare di restare intrappolati. Il termine ‘rizoma’ nasce con Deleuze e Guattari (1976) come metafora vegetale del pensiero, che ben esplica le proprietà cognitive della non sequenzialità e del decentramento. Il rizoma “non si lascia riportare né all’uno né al molteplice. Non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento,non ha inizio né fine ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa” 2 senza essere soggetto ad alcun modello strutturale o generativo. In questo tipo di labirinto esiste una vastità di scelte alternative, in cui non c’è via giusta e via sbagliata, ognuna produce soluzioni. L’idea del sistema acentrato e pluriconnesso creato ed agito dal pensiero non è un’idea nuova, la troviamo già nella tradizione cabalistica. Molte sono le analogie con il modello urbano metropolitano e con la società contemporanea: un mondo nomade, frammentato, discontinuo. Si pensi ancora al web.
Finora si è analizzata la morfologia del labirinto ma in realtà l’essenza di esso la troviamo affrontandolo dal punto di vista ontologico, occupandoci della ‘sintassi’. Il vocabolario su cui riflettere potrebbe limitarsi a poche parole: spazio, soggetto, tempo, percorso ed infine labirinto.
Partiamo dall’assunto fenomenologico di Merleau-Ponty secondo cui ogni sensazione è spaziale. Nel nostro quotidiano percepiamo tutte le cose come se avessero una dimensione spaziale: non siamo in grado di percepire lo spazio di per sé ma facciamo esperienza dello spazio come qualcosa che ‘tiene insieme’ le cose.
“Lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni3 Se lo spazio è sostanzialmente un’attività di posizione, si pone immediatamente la questione del soggetto, o meglio, di colui che percepisce. Il soggetto non può più essere considerato come distaccato dal mondo dei fenomeni su cui agisce e la nozione di spazio deve tener presente la dinamica della ricostruzione personale del soggetto.
Ora vorrei porre l’accento sul nostro concetto di tempo e sulla relazione che intratteniamo con esso. Si tratta di nuovo di una relazione spaziale: misuriamo il tempo come fosse spazio, attraverso le lancette dell’orologio che frazionano un’area , attraverso i granelli di sabbia della clessidra, attraverso l’ombra proiettata dall’asta della meridiana. Pensiamo il tempo come fosse spazio, infatti gli attribuiamo aggettivi spaziali come lungo, corto, lontano, vicino. Abbiamo bisogno di reificare il tempo, farlo diventare qualcosa da gestire, ridurlo ad una quantità misurabile di secondi, minuti, giorni, ore, anni. Tuttavia la vera natura del tempo sembra eludere questa logica.
Il tempo viene trasformato dall’uomo in spazio. Diventa un percorso (labirinto) o un movimento (danza). Non è casuale che in numerose culture, il labirinto sia alla base del movimento danzato. Infatti la danza, legando il pensiero al movimento, condensa il tempo e lo spazio. Le danze di Teseo, di cui si parla nell’Iliade, sarebbero la rappresentazione da parte dell’eroe ateniese e dei fanciulli che erano con lui, della celebrazione della vittoria all’uscita dal labirinto. I danzatori si tenevano per mano o tenevano un filo (il corrispettivo del filo di Arianna) e ondeggiavano lungo linee sinuose, avvolgendosi come una spirale e svolgendosi in linea retta. Rappresentavano l’entrata e l’uscita dal dedalo. Iniziavano dalla sinistra (il male) verso destra (il bene). La danza è anche detta ‘danza delle gru’ forse ad indicare il volo verso l’alto (libertà) o i movimenti degli uccelli.
Il tema della danza sacra è molto vasto si trova nei pellerossa, nelle Antille, tra i Maya, in Cina, in India, in Africa (Zulu). Si può ipotizzare che siano esistiti tipi di ballo che seguivano il percorso della spirale per raggiungere la trance. Un po’ come i Dervisci che ballano freneticamente roteando su se stessi, ma aggiungendo un movimento di avvicinamento al centro. Lo storico delle religioni Kerényi nel suoi ‘Studi sul labirinto‘ ci descrive un’antica danza polinesiana, la grande danza maro, che durava nove notti e a cui partecipavano nove famiglie che ballando disegnavano una grande spirale a nove volute.
Tornando al percorso e volendone dare una definizione, si potrebbe affermare che è uno spazio agito da un soggetto, che proietta un suo schema cognitivo di tipo spaziale e una sua intenzionalità. Infatti lo spazio varia in relazione al soggetto, sia secondo la prospettiva fisica da cui osserva, sia secondo la sua intenzione/progettualità.
A questo punto diventa più chiaro il significato della figura del labirinto: una rappresentazione astratta della dinamica del cambiamento sia spaziale, in riferimento alla relazione tra le cose, sia progettuale, in quanto l’intenzione e l’attenzione pongono in essere un percorso, creando la realtà percepita. È, a scala differente e in termini diversi, ciò che afferma Attali, sostenendo che il labirinto è “la prima astrazione del senso del destino umano, della messa in ordine del mondo. Descrive l’universo in quello che ha di prevedibile e d’imprevedibile a un tempo.”4